IL GRUPPO VANDA
(Facolta’ di Architettura del Politecnico di Milano)
IL LAVORO DI CURA: l’eredita’ di una sapienza tutta al femminile da mettere a frutto

Mi chiamo Annalisa Marinelli, sono un’architetta, vivo e lavoro a Roma e appartengo al gruppo della Casa di Eva.

Sono contenta di essere qui oggi perché sono convinta che sia molto importante ritrovarsi fra donne per parlare di architettura e scambiarci le nostre esperienze in questa disciplina.

E’ per questo che ho sempre cercato di frequentare gruppi di donne sin dai tempi dell’università durante i quali ho vissuto la mia prima felice e proficua esperienza all’interno di un gruppo accademico femminile: il gruppo Vanda del quale oggi vorrei parlarvi.

Vanda è una comunità accademica interdipartimentale formata da docenti di corsi diversi, ricercatrici e studentesse che ha svolto la sua attività nel Politecnico di Milano dal 1990 per circa dieci anni.

La sua attività era organizzata in incontri settimanali e in un grande seminario di fine anno con ospiti, mostre e dibattiti.

Ma molto importante per il gruppo è stata anche la funzione di laboratorio tesi, le tante ricerche prodotte nascevano dalla sinergia tra le istanze di ciascuna studentessa e gli stimoli nati dall’incontro con le altre.

In dieci anni di attività si sono tenuti undici seminari e sono state elaborate più di venti tesi di laurea.

Tanta fecondità è dovuta al fatto che Vanda non muoveva da un presupposto ideologico, era un luogo aperto dove ognuna poteva porre il proprio interrogativo e cominciare a lavorare alla propria ricerca con il supporto delle altre.

Ciò che significa il femminile in architettura si è dedotto come conseguenza delle ricerche, non ne era il presupposto.

L’approccio prendeva avvio da un interrogativo: cosa hanno prodotto le donne per l’architettura, nel costruito come nella teoria, nel pensiero o nelle utopie?

In questa tabella ho cercato di racchiudere in quattro aree tematiche i campi di ricerca indagati dal gruppo. (Tab. 1)

C’è l’area delle “madri dell’architettura” con le ricerche che hanno ridato vita a grandi progettiste del passato, ma anche a grandi committenti o filantrope dei secoli passati.

Poi c’è l’area che ho chiamato del “sentimento femminile dell’abitare” che indaga lo stretto legame che ha tenuto insieme le donne e la dimensione del privato, del domestico.

La terza è l’area della “produzione teorica” alla quale appartengono tutte le riflessioni condotte attorno alle “sapienze” che appartengono da sempre all’esperienza delle donne e ai loro riflessi nell’agire progettuale.

In conclusione l’area della “città femmina” delle ricerche in campo urbanistico che spaziano dalle utopie femminili, alle tracce della storia delle donne nel tessuto urbano ai più recenti interventi sui piani degli orari delle città.

I risultati di dieci anni di ricerche sono interessantissimi, ma purtroppo sono ancora racchiusi negli archivi dei dipartimenti del Politecnico a Milano. Mi auguro che prima o poi siano accessibili a tutti.

Logicamente anche io ho condotto una ricerca quando frequentavo il gruppo e l’area tematica in cui posso iscrivere l’argomento della mia tesi è certamente la terza, cioè quella della “produzione teorica”.

Come per le altre studentesse, anche la mia ricerca è partita da una personale istanza che credo sia poi il desiderio che accomuna tutte noi e il motivo per il quale ci siamo riunite qui, cioè la necessità di mettere insieme il nostro essere donne con il nostro essere architette e fare in modo che questa unione sia il più possibile feconda.

Con il mio lavoro all’interno del gruppo Vanda, ho cercato un filo rosso con il quale ricucire insieme tutte le parti di me che ritenevo importanti:

·      le motivazioni che mi hanno fatto desiderare di diventare architetta

·      la mia passione e la curiosità per le nuove frontiere della scienza, della filosofia e dell’arte

·      e ultima, ma non ultima, il mio essere donna con il suo bagaglio di differenze e la sua specificità.

E così ho trovato che l’esperienza delle donne può esprimere un grosso potenziale anche per l’architettura.

Perché la storia delle donne è decisamente distinta dalla tradizione culturale occidentale, fondamentalmente maschile, tradizione che oggi vive una crisi profonda e irreversibile.

E’ un dato ormai riconosciuto, infatti, che i valori che hanno fondato la cultura occidentale dagli antichi greci ai giorni nostri, si sono ormai sbriciolati e in architettura si vivono i contraccolpi di questo crollo.

Intorno a noi ci sono ormai solo le macerie dei valori di questa tradizione.

Qualcosa rimane in piedi ed è l’eredità delle donne estranee alla tradizione del pensiero occidentale; questa eredità consiste in una sapienza rimasta da sempre nascosta, non detta, sottintesa, qualcosa che esiste ma di cui non si parla, una zona d’ombra della cultura ufficiale.

Insomma, ora che tutt’intorno ci sono solo macerie, è finalmente visibile la piccola casa di Eva; adesso è giunta l’ora di dare un nome e una dignità a questa eredità per cominciare a metterla a frutto.

Si perché per poter parlare di qualcosa occorre prima che questa cosa abbia un nome.

Il nome che io ho voluto adottare per indicare questa sapienza al femminile è “cura”.

Ho scelto questo termine che in italiano indica un complesso di cose che vanno dai sentimenti all’azione, dal pensiero alle passioni, dal mondo del lavoro a quello delle relazioni, coinvolge la scienza, il diritto, la religione dice insomma quasi tutta la realtà.

In più il termine cura nasconde in sé un aspetto duplice, positivo perché significa competenza, perizia, impegno, ma anche negativo perché può significare dissidio, affanno, preoccupazione.

Dentro questa grande scatola della cura ho cercato di raccogliere quel complesso di azioni e sentimenti che si attivano quando ci si occupa di qualcosa o di qualcuno a cui si tiene particolarmente e cioè quel mondo di attività e passioni che le donne hanno costruito e continuano a vivere nel lavoro di tutti i giorni, quello un po’ invisibile svolto tra le mura domestiche.

Con la mia ricerca mi sono chiesta se fosse possibile ricavare dal lavoro di cura un modello da poter utilizzare anche nella professione di architetta.

Devo dire che l’idea non era del tutto originale, in biologia, per esempio ci sono delle scienziate che hanno ritenuto fondamentale per il proprio lavoro di ricerca l’esperienza acquisita con la maternità.

Ho cominciato così ad analizzare in maniera quasi scientifica il lavoro di cura e ho trovato che molte delle sue caratteristiche erano di grande utilità per la pratica architettonica.

(Tab. 2) - Ho riassunto schematicamente in questo diagramma le categorie individuate nel corso della ricerca

(Per motivi di tempo mi soffermerò solo al primo livello dello schema per il quale accennerò solo alcuni spunti come suggestioni).

Esse sono principalmente “l’effimero”, la “flessibilità” e la “relazione”.

Nelle seguenti tabelle, con brevi slogan, ho cercato di suggerire alcuni buoni consigli che l’architettura può trarre dal modello della cura.

(Tab. 3) - Effimero perché il lavoro di cura è un lavoro che occorre ripetere in continuazione e che non produce oggetti durevoli. Lo slogan del lavoro di cura è “tanto lavoro per nulla”: è cibo che si consuma, ma dà la vita, è una carezza che dopo un attimo non c’è più ma costruisce la relazione e le basi per la crescita della personalità di un bambino, è un gesto, un particolare modo di muoversi o di imbandire una tavola che è insieme anche trasmissione di memoria, di una tradizione e della cultura di un popolo.

La gratificazione, in questo lavoro, non deriva dall’identificazione con l’oggetto, ma dallo svolgersi stesso dell’azione di cura e dall’ordine di sentimenti e di desideri che l’azione comporta.

Questo in architettura può suggerire un abbandono della passione feticistica per l’opera intesa come monumento in cui l’artefice si identifica e il rivolgere le proprie energie verso l’impegno nella relazione, ricordarsi che si progetta per delle persone prima che per se stessi.

Ma l’effimero nel lavoro di cura ci restituisce anche la sensibilità per la deperibilità della materia che ha bisogno di continue cure.

In architettura questo suggerisce l’importanza della cultura manutentiva già dalla fase progettuale.

La cura poi è strettamente legata ai corpi con le loro esigenze e irriducibili singolarità.

In architettura questo ci ricorda quanto la cultura dello standard sia distante dai corpi reali, incarnati e portatori di diversità.

Ma anche i temi della memoria, della tradizione, della cultura che si trasmettono attraverso i semplici gesti quotidiani della cura, ci indicano quanto sia importante quello che io ho definito “il linguaggio analogico dello spazio” e cioè come sia importante l’influenza che ha su ciascuno di noi la simbolicità della disposizione spaziale di oggetti e ambienti attorno a noi.

(Tab. 4) - Altra caratteristica fondamentale della cura è la flessibilità che deriva dalla complessità del modello di lavoro.

Nel lavoro di cura la sequenza delle operazioni non può mai essere decisa a priori; la temporalità è stabilita dall’intuito che si attiva secondo le diverse esigenze.

Non è possibile sapere se tra dieci minuti sarà più urgente infornare l’arrosto, consolare il bambino che piange o chiamare il tecnico del gas.

La soluzione spesso arriva con l’invenzione, il saper combinare favorevolmente gli imprevisti.

La sagacia, l’intuito, il rispetto, la capacità di ascoltare e l’invenzione, sono gli strumenti per orientarsi nella complessità e nella politecnìa che caratterizza questo lavoro.

La politecnìa è una caratteristica comune tra cura e architettura, ma la cura, nella sua tradizione secolare e sempre aggiornata, costituisce il modello di lavoro politecnico più alto e più avanzato cui fare riferimento.

In architettura, un modello simile si traduce in un work in progress in cui il cantiere diventa centrale, il luogo deputato alla ricerca delle soluzioni attraverso la capacità di collaborazione, contaminazione, la flessibilità nella gestione degli imprevisti, l’interdisciplinarietà.

(Tab. 5) - Per ultima c’è la “relazione” che è la caratteristica principale della cura, la madre di tutte le altre categorie.

L’etica della cura si fonda sul primato della relazione.

Al suo interno dimorano la cultura della differenza e il mothering (letteralmente il “fare da madre”) che è la sapienza del sapersi identificare e del sapersi ritrarre al momento giusto.

E’ un savoire faire che scaturisce dall’oscillazione tra identificazione e rispetto dell’indipendenza dell’altro.

Questa oscillazione ricorda un po’ il meccanismo della creatività che si attiva proprio nell’alternanza tra l’immedesimazione, cioè il saper pre-vedere le situazioni relazionali che si verificheranno nello spazio da progettare, e la distanziazione. Saper prendere le distanze è altrettanto importante, a volte la soluzione migliore è inibita dall’accanirsi ossessivo del pensiero su un’idea.

E’ giusto ricordare che la relazione di cura non è affatto facile, essa comporta anche dei rischi perché è un corpo a corpo, un conflitto vitale, uno scontro di identità e di libertà. Troppa cura fa male tanto quanto l’incuria.

Anche in architettura il problema dei limiti dell’intervento dell’architetto si ripropone in continuazione.

Come nella cura, occorre acquisire il senso della misura, bisogna sapere fermarsi in tempo, prima che il progetto diventi coercitivo per la vita delle persone.

Ho cercato di darvi un idea del mio lavoro, ma molte altre sono le applicazioni che possono trarsi dal modello del lavoro di cura.

Per chi fosse interessato, questa mia ricerca presto diventerà un libro (spero entro quest’anno) dal titolo “Etica della cura e progetto”.

Spero per ora di essere riuscita comunicarvi la ricchezza dell’eredità femminile e della storia delle donne.

Annalisa MARINELLI

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